Mario Plazio
Uno dei temi alla moda di questi tempi riguarda la presunta mineralità del vino. È vero che c’è una proliferazione e un abuso del termine. È anche vero che non è semplice capire in che cosa dovrebbe consistere questa supposta mineralità. È altrettanto vero però che molti vignaioli hanno affinato le loro competenze, hanno adottato schemi produttivi più rispettosi e “naturali” (non apriamo il dibattito su questo termine) che consentono alle piante di affondare le radici più in profondità. Oppure hanno recuperato vecchie vigne, terreni o uve abbandonate per la difficoltà di ottenere un prodotto valido sul piano organolettico e redditizio economicamente. Fatto sta che nemmeno io ho la risposta pronta in merito alla questione iniziale. Come si esprime la mineralità in un vino?
Una certezza però credo di averla. Il Timorasso di Walter Massa sprigiona mineralità. È una sensazione immediata, ne vieni travolto e non puoi che definirla in questo modo.
Il Costa del Vento è per me un vino “freddo”, spietato nella sua essenzialità fatta di pura tensione. Così si prova ad accostarlo ad un grande Riesling alsaziano, di quelli più introversi e meno disponibili.
Poi però trovi anche certe sensazioni che hai provato negli chenin della Loira, dal lato di Vouvray, meno solari ad aperti dei cugini di Montlouis o di Savennières.
Non posso fare a meno di citare come il liquido sia implacabile nella sua progressione, la bocca è cesellata, regala fini ricordi di agrumi e di fiori di cappero, di mare. Uno dei pochi bianchi d’Italia in grado di emozionare.
Tre lieti faccini :-) :-) :-)
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