27 novembre 2010

Quando impareremo che il terroir viene prima?

Angelo Peretti
Quando mi capita fra le mani, la sfoglia volentieri, 'sta rivista. Si chiama Gola Gioconda. Un trimestrale di grande formato e non tantissime pagine. Curioso, a volte molto orientato verso l'editoria a tema gastronomico (ottima la rassegna libraria), a tratti anche divertente e perfino talvolta irriverente. Insomma: una lettura che sa essere piacevole. Ed in effetti l'oggetto che si legge sul frontespizio è il seguente: "Il piacere della tavola in Toscana in Italia e nel mondo". E che in quanto a piacevolezza del convivio si parta dalla Toscana è spiegato dal fatto che l'editore è fiorentino (ed è quindi ovvio che spesso si tratti d'argomenti toscaneggianti).
Sul numero terzo dell'anno corrente c'è un pezzo di Sandro Bosticco titolato: "Francia-Italia, piatto al centro". Un confronto italo-franzoso su certe faccende enogastronomiche. Salta fuori, andando a sintesi estrema, che il match si conclude con "un bel pareggio" quando si parli di formaggi, un secco 4-1 a favore de' francesi quando si passi al tema degli alcolici e un qualche vantaggio italico in fatto a storicità della letteratura culinaria. Per me, concordo sugli alcolici (ce le suonano di santa ragione, i galletti) e sull'editoria cuciniera, ma non sui formaggi, per i quali - checché se ne dica secondo uno stereotipo corrente - gl'italiani sono in grado di giocarsi la partita, e anche di vincerla, in fatto di produzione (non in materia di promozione, però).
Detto questo, mi soffermo su quanto il Bosticco scrive in tema di vino italo-francese. Dice che di là dalle Alpi, "abili nel mettere in vista i loro prodotti migliori, fanno credere al mondo che dietro un Pétrus o un Lafite ci siano milioni di ettolitri di Bordeaux di qualità appena inferiore. O che tutti i Bourgogne possano in qualche modo ricordare Romanée-Conti. Laddove i produttori italiani vantano continui cambiamenti di enologi, uvaggi e tipi di botti, i francesi zitti zitti fanno lo stesso senza sbandierarlo. Parlano continuamente di terroir mentre vendono un sacco di vini sotto il nome di vitigno".
Ora, al di là dell'impostazione ironica, credo che quest'estratto da Gola Gioconda centri la questione. Tu vai da un produttore italiano e ti fa vedere la cantina - magari griffata da qualche illustre architetto, e comunque perfettamente a norma - e ti presenta l'enologo e a volte anche il cantiniere. Vai da un francese e ti parla di terroir, esprimendo un caloroso senso d'appartenenza, e ti fa tastare vecchie annate e al massimo, se insisti, ti porta a visitare il vigneto, ma pressoché mai la cantina.
Quando impareremo?
Intendo, quando impareremo che l'appartenenza a un terroir e ad un'appellation è un valore, a prescindere che il vicino di casa faccia il vino buono o cattivo, che sia un vignaiuolo o un commerciante, che produca mille bottiglie o che ne venda un milione?
La denominazione "vale" se ci si crede. Tutti.

3 commenti:

  1. Penso non sia solo un volere del vignaiolo, ma soprattutto una richiesta del cliente. Infatti sento sempre consumatori che parlano delle cantine che sono andati a vedere in senso architettonico e non enologico. Mi sembra siano loro che cercano soprattutto le belle cantine piuttosto che il vino buono.

    RispondiElimina
  2. Certo, Stefano, cercano le belle cantine perché in genere gli parliamo solo di quelle. E d'altro canto di cosa vuoi mai sentano raccontare se la stragrande maggioranza dei vini da guidaioli son fatti con lo stampino? Gli italiani sono bravissimi ad appiattire, a standardizzare, ad omologare, alla faccia di quello spirito creativo che li ha contraddistinti nei secoli. Ci vorrebbe un nuovo Rinascimento, ma per quello serve "la" cultura, quelle che nasce dall'idea dell'umanesimo.

    RispondiElimina
  3. bellissima rivista gola gioconda..e bellissimo anche il sito..golagioconda.it!!
    ogni giorno c'è sempre qualcosa da scoprire sul cibo e l'alimentazione, tantissimi eventi e ricette :)

    RispondiElimina