Angelo Peretti
Il tema era questo: "Intorno ai 12°, vini a ridotto tenore di alcol, un’opportunità di mercato". Mi riferisco al convegno che, puntuale come ogni anno, l'Informatore Agrario ha proposto a Vinitaly. E per me era ed è argomento di particolare interesse, visto che son paladino pressoché da sempre dei vini "da bere".Orbene, Clementina Palese, che guidava il parterre dei relatori, ha voluto darmi la parola, ché dicessi la mia sulla questione. E la questione è quella del ridurre la gradazione alcolica, ormai spesso in crescita esponenziale, dei vini.
L'opinione che ho espresso, e che ho visto parecchio ripresa sul web, è che probabilmente, più che preoccuparci di come ridurre in cantina il tenore alcolico dei vini, dovremmo seriamente ripensare la nostra viticoltura. Dagli anni Ottanta in poi abbiamo guyotizzato il vigneto italiano. Tutti a far filari, tutti ad addensare gli impianti, tutti a piantare cloni evoluti, tutti a predicare il verbo delle basse rese per ettaro e per ceppo. Insomma, abbiamo omologato il vigneto allo stile bordolese-californiano. Con la differenza che quello stile va bene a Bordeaux, ma non per forza altrove. Ma no, bisognava seguire il dogma del filare e del vino concentarto, muscolo, tannico, alcolico. E adesso ci si ritrovano per le mani uve pregne di zuccheri, da cui si ricavano per forza vini troppo alcolici. E si vorrebbe porci rimedio in cantina, abbassando l'alcol con l'aiuto della tecnologia.
Ma, dico, scherziamo? Prima dopiamo l'uva nel vigneto e poi ridopiamo al contrario il vino in cantina? E abbiamo ancora il coraggio di chiamarlo vino?
Non è che magari sarebbe meglio rivedere l'assetto del vigneto, la forma d'allevamento, e magari lasciar che la vigna cresca un po' di più, e faccia un po' d'uva in più, e insomma permettere che la gradazione più bassa e il vino il più bevibile nascano nel vigneto, come sarebbe logico che fosse?
Ecco, io credo questo: che non per forza il filare vada bene ovunque e che, soprattutto, non per forza le basse rese siano l'ottimale. E sono pronto a prenderni la croce di questa mia affermazione. Ma io non voglio vini palestrati, da concorso o da degustazione, voglio vini che stiano in tavola col cibo.
Diverso è il discorso relativo a una dealcolizzazione pressoché totale del vino. Ecco, quella la vedo come un'opportunità. Certo, il prodotto finale non sarà vino e sarebbe dunque meglio trovargli un nome diverso rispetto a "vino dealcolato", ma credo che sia un bene studiare un prodotto nuovo, che permetta di smaltire la sovraproduzione di uve senza farla transitare dalle doc o dalle igt. Credo che questo permetterebbe - assieme - di destinare ai vini a denominazione le uve migliori, di ridurre le giacenze e comunque di garantire un discreto reddito a chi coltiva. Lo spazio sul mercato c'è: si pensi ad esempio a quei milioni di persone che non bevono alcol per ragioni religiose. L'obiezione che questo pseudo-vino dealcolato possa uccidere il vino vero non la accolgo. La Diet Coke non credo abbia mangiato quote di mercato alla Coca Cola classica, e la birra a zero gradi o quasi non ha sottratto spazio a quella tradizionale, ed anzi stanno fiorendo ovunque microbirrifici che fanno birre artigianali. I target di mercato son diversi, e tanto vale occuparli.
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