Angelo Peretti
Confesso, la "questione trentina" mi sta appassionando. Parlo del dibattito che sta coinvolgendo istituzioni, politici, cooperative e vignaioli circa le ipotesi di rilancio di una filiera che sta segnando il passo e che purtroppo ha già visto arrivare al pettine taluni nodi, portando al commissariamento di una delle cantine sociali dell'autonoma provincia tridentina.
Ieri scrivevo qualche mia considerazione circa i contenuti, o almeno quelli resi noti, del progetto elaborato dall'Istituto di San Michele all'Adige. E m'interrogavo se davvero "l’aumento del prezzo di vendita del vino trentino si potrà attuare innanzitutto attraverso il miglioramento della sua qualità e della sua immagine", come ho visto scritto.
Oggi non resisto a tornare in argomento dopo aver letto sul sito della collega della carta stampata e del web Francesca Negri, alias Geisha Gourmet, aggiornatissima fonte di informazione sulle vicende enoiche provinciali, le dichiarazioni di Diego Schelfi, presidentissimo della cooperazione trentina (è lui nella fotina), che riguardo al piano dice così: "Dalle prime impressioni mi sento di affermare la grande preoccupazione del mondo cooperativo per alcune linee di pensiero che traspaiono dal documento di San Michele. Prima fra tutte il concetto di qualità, che sembra venga inteso come un elemento di novità assoluta. Contesto in modo deciso il fatto che all’attività delle cantine trentine non corrisponda la qualità. Essa fa parte, al contrario, del nostro lavoro quotidiano".
Ora, so che farò sobbalzare qualcheduno sulla sedia, ma dico che son d'accordo con Schelfi. E spiego, o cerco di farlo.
Personalmente ritengo che la cooperazione trentina dal lato della qualità - e poi vediamo cosa intendo per qualità - non abbia nulla da rimproverarsi. E insisto: non è quello della qualità il tema attorno al quale personalmente riterrei si debba e si possa sviluppare il confronto in terra di Trento. Ché quando si parla di qualità si va troppo nel profondo nel mondo dell'opinabile, e alla fine per trovare una quadra occorre rifarsi esclusivamente a parametri di qualità tecnica. E da questo lato, dal lato cioè, insisto, della qualità tecnico-enologica, ritengo che le cantine sociali della provincia siano attrezzate per poter produrre e iniettare milioni e milioni di bottiglie sul mercato ad un prezzo "sostenibile" da parte della grande distribuzione e del consumo di massa. Insomma, è come se volessimo porci l'interrogativo se "qualitativamente" sia meglio McDonald's o una qualunque trattoria di campagna: non ho dubbi che sotto il profilo tecnico e sanitario stravincerebbe un'infinità di volte McDonald's. Il che non vuol dire che io non scelga ugualmente la trattoria, ammesso che sia almeno decente, ma questo è un altro paio di maniche, e comunque son maniche che non mettono in discussione il successo commerciale della catena planetaria del fast food.
Detto tutto questo, devo trarre una conclusione, e la conclusione - insisto, l'ho già detto ieri, ma sono uno zuccone - per me non è che una: occorre che in Trentino si ritrovi un'identità vinicola. Se oggi mi chiedono come definire il vino trentino, dico che non lo so, e questo è un guaio, perché come me non lo sa, ritengo, la stragrande maggioranza di chi beve vino. Addirittura, han perso di rappresentatività dei monumenti di cultura enoica come il Marzemino e il Teroldego, sepolti dall'invadente e invasiva presenza del marchio Trentino, che è però impersonale, indefinito, impalpabile in materia di vino. Ecco, forse questa potrebbe essere la strada: tornare a rendere riconoscibile l'identità, il tratto distintivo delle singole produzioni, ritrasformarle in veri e propri brand territoriali e come tali aiutare il pubblico a riconoscerli. Un lavoraccio, probabilmente, ma se parlare di qualità preoccupa i trentini, forse vuol dire che non è la qualità il tema da dibattere. Eppoi di solito la gente di qualità non ha paura del lavoro.
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