Angelo Peretti
Spesso me lo domando: in che cosa trova espressione un terroir? Nella personalità di un vino, certo. Ma quanto conta in questo il vitigno? Può contare tantissimo, come nel caso dei rossi di Borgogna o di Barolo: pinot noir e nebbiolo ne sono parte integrante e insostituibile, intangibile. Altre volte invece conta proprio pochissimo, come nel caso degli Châteauneuf-du-Pape, dove la lista della varietà utilizzabili è amplissima, e ognuno la declina a modo suo, epperò i vini hanno ugualmente un'anima distintiva: "sanno" di Châteauneuf-du-Pape.
La domanda me la son posta di recente tastando un rosso valpolicellese eretico. E l'eresia sta nel fatto che quel rosso è fuori completamente da ogni canone del disciplinare di produzione del Valpolicella, tant'è che viene imbottigliato come igt. Ma quel vino "sa" assolutamente di Valpolicella, ed anzi "sa" della vallata di Marano, dove nasce. E dunque se non sarà mai doc, è comunque assolutamente vino di terroir. Ora, in genere sono assolutamente contrario al fatto che in una zona che ha sua sua appellation si facciano vini a igt. Ma ci son sempre le eccezioni. E questa è un'eccezione di quelle che ti mettono un po' in crisi, e ti fanno, appunto, pensare.
Intanto, nome ed azienda: il vino è il Dedicatum 2006, Rosso Veronese igt di Terre di Leone, azienda che si può a ragione chiamare emergente, a Marano di Valpolicella.
Ci son dentro, nel vino, al dieci per cento ciascuno corvina veronese, corvinone, rondinella, oseléta, molinara, negrara, dindarella e al cinque per cento a testa croatina, marzemino, incrocio Manzoni rosso, teroldego e sangiovese, e fin qui si arriva al novantacinque per cento, e il rimanente cinque per cento è dato in egual misura da rebo e barbera. Grosso modo, ché mica puoi usare il bilancino del farmacista quando vai a tirar giù l'uva e la vinifichi.
La faccenda nasce, grosso modo, così. Sui campi che oggi fan parte dell'azienda che ha nome Terre di Leone c'era un ettaro piantato anni e anni fa con l'intendo preciso di far tanta uva. Ma siccome le rese alte danno vini scipitini, allora man mano si aggiungevano varietà che conferissero un po' di colore o un po' di struttura. Guardate che non è mica un'eccezione: nel Veronese, o almeno in Valpolicella e nell'area del Bardolino, si faceva normalmente così in passato, e questo spiega il perché siano zone dove s'è sempre fatto uvaggio. Quando su quei campi maranesi s'è pensato di dar vita a una nuova realtà vitivinicola, saggiamente Federico Pellizzari e Chiara Turati (son loro nella fotina qui sopra) han deciso di non disperdere, almeno in parte, quella tradizione, e dunque si son fatte selezioni in vigna e s'è ripiantato lo stesso mix di vitigni, che adesso sono sparsi qui e là sui dieci ettari totali dell'azienda. Poi, le uve si raccolgono e ci si applica quella che è lo stile valpolicellese, ossia un appassimento che è in realtà una specie di surmaturazione forzata in cassetta, per ottanta giorni all'incirca.
Ne viene fuori un rosso dal colore scarico, com'è proprio dei rossi della val di Marano, e dal naso - mi si consenta il neologismo - "uvoso", che insomma trasmette sentori precisi di uve rosse, cui si sommano memorie floreali e speziate. Ed ha grande beva, e freschezza salina, e lunghezza.
Credo sia un vino che può stare a lungo in bottiglia, ammesso che si resista alla tentazione di stapparlo. Ed a me piace parecchio (insomma, se qui parlassimo coi miei faccini, sarebbero tre, beatamente felici).
Per l'intanto sono diecimila bottiglie - e non è poco - a un prezzo intorno ai 15-16 euro.
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